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Addio Lea, la Divina della racchetta

Morta a 89 anni, Pericoli ha segnato il tennis italiano. Dalle vittorie allo stile che ne ha fatta un’icona

C’era un monastero mariano, chiamato Loreto Msongari Convent, a Nairobi, in Kenya: un grande chiostro candido e due ordini di porticati a volte, che incorniciavano giardini curati. «Quel posto – rifletteva Lea Pericoli nelle interviste – è stato la più grande fortuna della mia vita. Dieci cattivissime suore irlandesi che tenevano a bada trecento bambine scatenate».

Camerate da quattro, lo studio e lo sport, le suore più attente di qualsiasi spietata allenatrice di oggi. E il tennis, che spuntava sui campi in erba. Il Loreto c’è ancora, oggi è finalmente multirazziale e continua a fare da riferimento per le bambine e le loro famiglie.

Quando la famiglia l’aveva iscritta in quel convento, era partita da Addis Abeba, la sua città d’infanzia, e la mamma le aveva aggiustato i capelli, con le ultime raccomandazioni. Le aveva fatto promettere di non avventurarsi in mezzo alle correnti dell’oceano, chissà se quella biondina che amava andare a cavallo fu ubbidiente, o se contravvenne anche quella regola, come mille altre ne avrebbe dolcemente, perentoriamente infrante, per nove decenni.

Lea Pericoli era fatta così: una guerriera raffinata, armata di una classe disarmante e di un carattere indomito.

Il padre Filippo era un imprenditore dei trasporti. Lea aveva un fratello e due sorelle; era nata a Milano ma poi era arrivato subito il trasloco ad Addis Abeba e da lì si erano trasferiti ad Asmara, prima di una svolta drammatica (Filippo fu imprigionato nel campo di concentramento di Dire Daua, poi liberato dal negus Hailé Selassié).

Dopo la guerra andavano sempre in vacanza in Versilia. A diciassette anni Lea in spiaggia si divertiva, ma continuava a flirtare con lo sport. E giocava a tennis alle Focette (Pietrasanta). La iscrissero a qualche torneo: li vinse a ripetizione. Qualcuno disse ai genitori: questa ragazza è troppo brava per giocare solo per diletto. Divenne campionessa italiana juniores in poche settimane. Era iniziata una grande carriera.

Gianni Clerici la chiamava come la Callas: la Divina. Ha segnato indelebilmente il tennis italiano – e la società italiana – come giocatrice, poi anche come organizzatrice, giornalista, telecronista e conduttrice televisiva. Ventisette volte campionessa italiana, è arrivata nelle prime sedici a Parigi per quattro volte e a Wimbledon per tre; maestra sopraffina nell’arte del doppio (due semifinali al Roland Garros tra femminile e misto), era una grande giocatrice ma non stellare; una delle migliori tra le non-dominatrici.

Ragazzi e soprattutto ragazze, vi diranno che Lea Pericoli era un’icona. Sentirete parlare di partite giocate in mutandine di pizzo, di uno stilista inglese che l’aveva eletta a musa (Ted Tinling), del gonnellino e della canottiera tempestati di diamanti con i quali andò in campo una volta in Sud Africa.

E ancora servizi, volée e pallonetti in visone, in petali di rose, in penne di cigno, in foglie d’oro. O semplicemente in colore rosa, che allora era una sfida rivoluzionaria, perché regnava l’obbligo dei cosiddetti gesti bianchi, con abiti sportivi immacolati.

Vi racconteranno la sua pacata, elegante, sistematica ribellione agli standard imposti, alle convenzioni, del completo di piume di struzzo che scandalizzava quei tromboni di Wimbledon nel 1955. Rispolvereranno un paio di aggettivi antichi e deliziosi, “audace” e “ardito”. Il padre invece non riusciva a tollerare quella moda impertinente, la chiamava persino “scostumata”.

Ma lei non se ne curò. Ve lo racconteranno ed è vero; ma non è tutto. La forza scardinatrice della sua figura è anche altrove. È stata una delle prima a liberare la gabbia semantica della sua malattia, parlando di tumore e di cancro quando solo addentrarsi in quel vocabolario suonava un tabù.

La curava Umberto Veronesi, insieme decisero di lanciare una campagna di prevenzione: sui muri ovunque c’erano i manifesti con Lea, malata e fiera, pronta a battersi come prima di una risposta, dietro la linea di fondo campo. Ha sempre detto che il suo non era coraggio, era un appello. L’intenzione di avere il tifo dalla sua parte, anche in partite diverse da quelle tennistiche. E vinse.

Non guadagnava una lira ma non voleva uscire dal circuito. È rimasta atleta fino a quarant’anni. Per mangiare si arrangiava nei bar con le amiche giocatrici, per allenarsi intercettava dei “terza categoria” maschi che fossero disposti a scambiare palle con lei, nella pausa pranzo o la mattina presto, alle otto, in quella dolce Roma in bianco e nero.

La doccia, una Vespa per scorrazzare nella città eterna, e poi i tornei, le esibizioni, certe sfide agli uomini con qualche somma in palio. Una dea anticonvenzionale, educata e forte. Ha servito lo sport, ha rispettato la vita, ha onorato il suo essere donna. E lascia una traccia, come le impronte su un campo di terra rossa. Quiet please, dicono gli arbitri sul seggiolone del campo di tennis. Lea Pericoli resterà in campo; silenzio, per favore. —

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Pubblicato su La Nuova Venezia