Addio Giada, l'omelia al funerale: «Dentro di noi c'è rabbia per quella speranza graffiata»
Le parole del parroco di Folzano don Sergio Contessi che ha celebrato la funzione: «Noi siamo qui con te, Giada, ma il nostro cuore è triste e l’anima piange»
Lo strazio di un'intera comunità, quella di Folzano, Brescia, che nel primo pomeriggio di giovedì 6 giugno si è stretta attorno alla famiglia di Giada Zanola per darle l'ultimo saluto alla chiesa di San Silvestro. A farsi voce per esprimere il dolore di amici e conoscenti è stato il parroco don Sergio Contessi che ha scritto una lunga e commuovente omelia per ricordare la mamma di 33 anni uccisa una settimana fa a Vigonza.
Ecco il testo integrale dell’omelia
«Carissima Giada, l’intera comunità di Folzano oggi ti accoglie e ti abbraccia. Tanti di noi in questo piccolo quartiere della periferia sud di Brescia ti hanno vista crescere, giocare, studiare, vivere amicizie, coltivare sogni… E ora, insieme ai tuoi familiari, ci sentiamo come persi, costretti a deglutire un boccone molto, troppo amaro e che fa male.
Nessuno avrebbe potuto anche solo immaginare per te oggi un “rientro forzato” come quello che ti ha appena coinvolta: dal Veneto che amavi, per via direttissima al Folzano che portavi nel cuore… ma che rientro è? su una vettura elegantemente “truccata” sì -il carro funebre-, ma ahimè senza più la possibilità di sorridere, né di guardare il volto delle persone che ami, fisicamente e tragicamente distante da quel bimbo che era divenuto parte della tua vita, senso per cui valeva la pena continuare a sperare in una vita felice.
Noi siamo qui con te, Giada, ma il nostro cuore è triste e l’anima piange; siamo qui con te, vicini; le parole non riescono a raccontare in modo compiuto il dramma che ha travolto la tua esistenza, ma nemmeno le parole riescono a descrivere compiutamente la qualità, la specie strana del dolore che proviamo: dentro di noi c’è rabbia, c’è la quasi pretesa che le cose avrebbero dovuto andare diversamente; e poi c’è la mancanza di futuro, la speranza graffiata, i sogni infranti; forse più di tutto a farci male dentro c’è la morte stessa, che si è fatta ingiustamente vicina nello spegnersi drammatico della vita di Giada.
Stiamo male e abbiamo bisogno di una medicina che lenisca il dolore che sentiamo. Abbiamo bisogno di qualcosa che ci spinga oltre il muro del non senso e del pessimismo; abbiamo bisogno di una mano tesa che ci aiuti a rialzarci per proseguire il cammino della vita con una dignità ritrovata, con passione e con impegno. Il Signore, con tenerezza e forza insieme, ci offre la medicina della sua Parola, tende a noi la sua mano e con pazienza attende dei riscontri che noi siamo connessi a lui.
La Sacra Scrittura e l’Eucaristia sono due strumenti potentissimi che possono aiutarci a risorgere, a rialzarci ed a riprendere il cammino della vita, nonostante tutto. Nella celebrazione funebre che stiamo vivendo abbiamo a disposizione questi doni, a cui attingere senza paura.
Il Vangelo che abbiamo ascoltato poco fa ci ha narrato della morte in croce di Gesù: la morte di un innocente, una morte dolorosa, drammatica. Tutto era ormai compiuto e Gesù consegna il suo spirito. Vorrei riflettere su due personaggi di questo racconto: Giuseppe d’Arimatea e le donne. Giuseppe era un uomo buono e giusto, originario di Arimatea e membro del sinedrio. Giuseppe è molto intraprendente e ha il coraggio di andare da Pilato a chiedere il corpo di Gesù.
Era vicino il riposo sabbatico degli ebrei e bisognava pertanto agire in fretta. Gesù grazie a Giuseppe viene deposto dalla croce, avvolto in un lenzuolo e messo in un sepolcro nuovo. Diversamente, il corpo di Gesù sarebbe rimasto esposto al pubblico ludibrio per giorni. Giuseppe si è esposto con le autorità del tempo e, non senza correre rischi, ha ottenuto ciò che occorreva per una degna sepoltura di Gesù. Giuseppe d’Arimatea è il tipo d’uomo di cui il mondo anche oggi ha bisogno perché è un uomo buono e giusto, ovvero compie le scelte secondo la volontà di Dio. Questa sua caratteristica nel vangelo, oltre che a Gesù, è attribuita anche all’altro Giuseppe, lo sposo di Maria. Giusto è colui che non agisce nella logica di un interesse egoistico e personale, bensì ha il coraggio di percorrere, e con libertà, strade anche inusuali e fuori moda, ma buone.
L’uomo giusto di oggi è l’uomo che costruisce un regno di pace, dentro il suo cuore e con la realtà in cui vive. L’uomo buono e giusto di oggi ha il coraggio di mettersi in dialogo costruttivo con chi detiene il potere e la responsabilità del bene comune. Giuseppe d’Arimatea oggi sarebbe intraprendente e determinato a proteggere e a dare voce a chi è più debole; Giuseppe d’Arimatea oggi sarebbe appassionato dell’arte di educare i giovani ad amarsi davvero, dando la vita gli uni per gli altri; Giuseppe d’Arimatea oggi non alimenterebbe l’odio, ma il dialogo rispettoso e costruttivo… (interrompo, ma gli esempi capite che potrebbero continuare).
L’altro “personaggio” del vangelo su cui vorrei riflettere sono le donne, che al mattino presto del primo giorno dopo il sabato, vanno al sepolcro di Gesù per completare la cura del suo corpo morto. Sono le donne che hanno seguito Gesù durante la sua missione, dalla Galilea fin sotto la croce. Esse con grande sorpresa vedono che il sepolcro è aperto, ma non trovano il corpo di Gesù. Si domandano il senso di tutto ciò e, mentre sono impaurite e ripiegate su sé stesse, ricevono l’annuncio sconvolgente che cambierà per sempre la loro vita: Gesù è risorto! Che forza e quanta vita c’è in queste donne.
Di esse l’evangelista Luca narra la qualificante caratteristica della cura: non sono gli apostoli a muoversi per ungere e profumare il corpo di Gesù, ma le donne. E mi piace pensare che l’avrebbero fatto con tutto l’affetto, la tenerezza e la delicatezza dei gesti di una donna che agisce con il cuore e per amore. Trovando il sepolcro vuoto, esse hanno però paura e rimangono atterrite.
Due uomini in abito di luce si presentano a loro ponendo questa domanda: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto”. Non lo abbiamo ascoltato oggi, ma sappiamo che questo annuncio, attraverso queste donne, raggiungerà prima gli apostoli e poi si diffonderà in tutto il mondo. Cura e tanta, tanta capacità di cambiamento. In un istante le donne al sepolcro passano dalla paura che immobilizza alla corsa della fede.
Esse corrono per portare a tutti l’annuncio della gioia che Cristo è risorto, che Cristo è vivo fra i suoi. Le donne al sepolcro esortano le donne di oggi a tenere vivo uno stile che noi uomini non possiamo delegare, ma apprendere e acquisire, responsabilmente e con umiltà: insegnateci dunque l’arte della cura, affinché possiamo amarvi con responsabilità e prenderci cura di voi; insegnateci a non escludere nessuno: chi scarta, tradisce e “mangia l’anima” dell’altro; insegnateci a non avere paura di cambiare: oltre la paura che blocca, scopriamo che lo Spirito di Dio libera e dischiude le esistenze al futuro e al bene.
La morte di Giada oggi non può lasciarci indifferenti. Prego perché lo Spirito agisca in ciascuno di noi per muoverci al bene, verso un di più di vita che da soli non possiamo darci. La Messa che insieme stiamo celebrando ci faccia tornare a casa trasformati, desiderosi di essere buoni e giusti come Giuseppe d’Arimatea, ma anche capaci di cura e di novità come le donne al sepolcro.
Il sepolcro, luogo di morte, è stato per loro esperienza di vita nuova. Prego perché alla tragica esperienza di morte di Giada corrisponda la fiduciosa e coraggiosa ripartenza della vita buona di ciascuno di noi.
Pubblicato su La Nuova Venezia