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L’addio a Giovanbattista Cutolo. La sorella: “Napoli sei tu, non Gomorra”. L’arcivescovo ai giovani: “Fate una rivoluzione di giustizia, le pistole diventino lavoro”

Monsignor Battaglia: «Ti chiediamo scusa, tu prega per chi non ha saputo custodirti»

NAPOLI. A un’ora dall’inizio della messa, la chiesa di Gesù nuovo a Napoli era già piena. Fuori, a consentire alla folla straripante di assistere alla funzione, il maxi-schermo allestito dal Comune e qualche coro rivolto alla magistratura: «Giustizia, giustizia». Dentro, un silenzio che fa male. Un silenzio interrotto solo da commossi e forti applausi.

Napoli risponde così all’appello lanciato di Daniela Di Maggio di partecipare ai funerali del figlio Giovanbattista Cutolo, il 24enne ucciso a colpi di pistola nella centralissima piazza Municipio nel corso di una lite scoppiata per uno scooter rubata. «La Napoli bene è tutta qui. Ora è necessario che questa città cambi, perché la morte di mio figlio non deve essere vana. Mio figlio non può essere morto invano», grida Daniela all’uscita della chiesa prima di allontanarsi al seguito del feretro.

E che Giovanbattista sia vivo nel ricordo di chi lo ha amato e nel ricordo di una città che oggi si è mobilitata per salutarlo lo testimoniano le parole scandite in chiesa da Rosaria, alla quale è stata affidata la lettura di uno scritto di Ludovica, la sorella di Giovanbattista. Uno scritto tutto declinato al presente «perché è l'unico tempo che conosco». Uno scritto che afferma un principio di resistenza: «Io lo so che Napoli sei tu, non è Gomorra, non è il boss delle cerimonie». In nome di questo principio, durante l’omelia, l’arcivescovo Battaglia prova a scuotere le coscienze («Nessun adulto di questa città può dirsi assolto»), ad accendere quel fuoco sacro della ribellione ai soprusi della criminalità che pare ormai sopito. «Se qualcuno un tempo disse scappate, io dico restate e seminate» perché «Napoli ha bisogno di giustizia, speranza. Ha bisogno di essere cambiata». Solo l’amore, l’impegno possono produrre una rivoluzione che le istituzioni non sono state in grado di effettuare. «Ora occorre trasformare i coltelli in luoghi educativi, le pistole in posti di lavoro, i pugni in mani tese, insulti in melodie e arte e vita».

Don Battaglia sferza i politici e la politica: «Giovanbattista prega per Napoli che non ha saputo custodirti. Accetta la mia richiesta di perdono, perché sono colpevole anche io. Fin dal primo giorno dell'arrivo in questa città mi sono reso conto dell'emergenza educativa e sociale che la abitava e ho cercato di adoperarmi con tutto me stesso. Forse avrei dovuto non solo appellarmi ma gridare fino a quando le promesse non si fossero trasformate in progetti, le parole e i proclami in azioni concrete, le pistole in posti di lavoro. Giovanbattista accetta le scuse forse ancora troppo poche di coloro che si girano dall'altra parte. Perdona coloro che dimenticano che i bambini sono figli di tutti e tutti devono fare la loro parte. Di coloro che non si curano di chi cresce nell'ombra del malaffare. Perdonaci tutti perché quella mano l'abbiamo armata anche noi con i nostri ritardi, con le promesse non mantenute, con i proclami, i post, i comunicati a cui non sono seguiti azioni, con la nostra incapacità di comprendere i problemi endemici di questa città che abitata anche da adolescenti, poco più che bambini, camminano armati, come in una città in guerra».

Parole che cadono macigni sul capo dei politici seduti in prima fila, davanti alla bara che custodisce il corpo di Giovanbattista. C’è il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, c’è il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi con la fascia tricolore. E ci sono i ministri Gennaro Sangiuliano e Matteo Piantendosi, il quale, prima dell’inizio dalla messa, abbraccia Daniela Di Maggio accanto alla bara bianca. Assistono tutti impotenti al dolore di una famiglia che ancora si chiede perché, al dolore incontenibile di una mamma che aspetta la fine dell'omelia, per abbracciare la bara che custodisce il corpo del figlio e resta così per diversi minuti.

«I silenzi che fanno male sono ancora troppi», insiste don Battaglia. E quei silenzi vanno colmati. La Napoli presente ai funerali lo fa con gli applausi, quelli sinceri che scandiscono più di un momento della funzione. Si applaude alle parole di don Battaglia, si applaude quando la bara bianca - posta al centro della navata principale durante la camera ardente - viene sollevata e spostata dinanzi all’altare per dare inizio alla messa. Si applaude quando quella stessa bara, vestita con le t-shirt con sovraimpresse la foto del 24enne ucciso e la scritta ‘Giovanni vive’, viene portata fuori dalla chiesa per l’ultimo viaggio. C’è una marea di gente ad accogliere Giovanni. «La Napoli bene è tutta qui», grida la madre. E ora, chiede la donna, va fatto in modo che «mio figlio non sia morto invano». «Napoli da oggi deve cambiare», insiste. Ma devono cambiare anche le leggi: servono «pene giuste per ragazzi che non possono essere più chiamati ragazzi ma criminali. Il ragazzo che ha ucciso mio figlio è andato a giocare a carte dopo che ha ucciso. Ha pensato: spariamo, poi vediamo che succede». Proprio a questo ragazzo e ai suoi parenti che hanno chiesto scusa, Daniela Di Maggio riserva parole di fuoco: «Come si fa a chiedere scusa davanti a un crimine così efferato? Questa è solo una porcata. Con questi crimini efferati, si perdono anime stupende. Dobbiamo combattere, dobbiamo risvegliare le coscienze».

Pubblicato su La Nuova Venezia