Storia di Matteo Toffanin, giustiziato dalla mafia a 23 anni per uno scambio di persona
Il 21 marzo è la Giornata contro le mafie. Il tre maggio 1992 a Padova l’agguato mortale firmato dalla Mala del Brenta, ma la vittima designata era un’altra
Matteo Toffanin è una vittima innocente di mafia. La sua è una storia incredibile, nel senso letterale del termine: non ci si può credere. E invece, è andata prorpio così.
Ucciso a soli ventitrè anni, per sbaglio, per una serie irripetibile di circostanze sfavorevoli. Ucciso davanti agli occhi della sua giovane fidanzata, scampa miracolosamente all’agguato.
E’ stata la mafia, sì. Ma non quella venuta dal Sud, no. Quella che il Veneto si è costruito in casa: la famigerata mala del Brenta.
La riapertura del cold case
In questo video, la giornalista del Mattino Cristina Genesin spiega in sintesi l’agguato di via Tassoni e la riapertura dell’inchiesta.
Quel tragico errore di persona
Per l’insensato omicidio di Matteo Toffanin risultano dunque due indagati. Un omicidio insensato, perché Matteo è stato doppiamente vittima.
Vittima di un assassinio e, prima ancora, di uno scambio di persona. Il pubblico ministero Roberto D’Angelo ha riaperto le indagini e ha sentito uno dei protagonisti di quella drammatica vicenda ancora senza un degno finale, Marino Bonaldo, 70enne padovano, una sfilza di precedenti penali, dal traffico di droga alle rapine.
Sarebbe stato lui la vittima designata e, per una serie di circostanze del tutto casuali, sfuggita all’agguato che avviene la sera di una domenica, il 3 maggio 1992.
Un anno drammatico per l’Italia che “stampa” una delle più feroci pagine criminali firmate dalla mafia: dalla strage di Capaci, in cui perde la vita il magistrato Giovanni Falcone con la moglie e gli agenti di scorta, a quella di via D’Amelio che registra la morte del collega Paolo Borsellino con i suoi “angeli custodi”.
Dunque, il 1992: Marino Bonaldo ha 39 anni; Matteo Toffanin appena 23. Il primo, pluripregiudicato in affari con la Mafia di Felice Maniero, abita a Padova nel quartiere Guizza, in via Tassoni 11; il secondo, il figlio che tutti vorrebbero avere, vive in famiglia a Roncaglia di Ponte San Nicolò e frequenta il quartiere Guizza per motivi sentimentali.
In via Tassoni Matteo ci arriva ogni fine settimana – al rientro da Gallarate in provincia di Varese dove studia informatica – per stare con la fidanzata Cristina Marcadella, 25 anni, residente al civico 4, in un condominio di fronte a quello di Bonaldo. Non basta, però, quella semplice coincidenza.
Il destino si mette di traverso
Il destino ci si mette traverso come in una tragedia greca dove al fato non ci si può opporre. La sera del 3 maggio Matteo prende in prestito l’auto dello zio, una Mercedes bianca identica a quella Bonaldo per marchio e colore. Di più: le due vetture hanno in comune ben tre numeri di targa.
Un investigatore indica un foro di proiettile sulla Mercedes bianca che Matteo aveva preso a prestito dallo zio per andare al mare con la fidanzata. L'auto era uguale a quella di Bonaldo. Anche tre numeri della targa erano identici
Intorno alle 21.30 il giovane riaccompagna a casa la fidanzata dopo una giornata al mare e si ferma per salutarla davanti all’ingresso della casa di lei. Scatta la trappola: la vettura è circondata da due sicari che sparano con un fucile a canne mozze e con un revolver calibro 38 special.
Cristina, colpita alle ginocchia e alla gamba, si accascia; Matteo è centrato dietro l’orecchio sinistro da uno dei killer che si è avvicinato alla portiera.
Per lui non c’è scampo, mentre i due assassini fuggono a bordo di una Fiat Tipo targata Venezia.
Tocca a Bonaldo
Acnhe Cristina Marcadella è stata interrogata a oltre tre decenni dalla tragedia che non può dimenticare. Mercoledì 22 tocca a Bonaldo che ha sempre respinto l’ipotesi di uno scambio di persona. Chissà se potrà fargli cambiare idea un briciolo di rimorso per quella giovane vita innocente stroncata al posto suo.
Secondo gli inquirenti di un tempo la causa dell’agguato sarebbe stata una partita di droga mai pagata, gestita da organizzazioni di stampo mafioso. Qualche tempo prima dell’omicidio, Bonaldo era stato trasferito a forza nel capoluogo lombardo e aveva subito una finta fucilazione e il suo negozio di pelletteria era stato crivellato da colpi di pistola.
L’identità degli assassini
All’identità dei possibili assassini, comunque, il pm D’Angelo e la Squadra mobile di Padova, ci sono già arrivati. Tutti e due sono indagati per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione.
Resta il problema di trovare le prove della loro responsabilità. Obiettivo tutt’altro che facile a tanti anni di distanza quando gli strumenti scientifici a disposizione sono sì ben più raffinati di un tempo, ma alcuni reperti non sono più disponibili.
Felice Maniero chiamato come testimone
La convocazione è fissata per venerdì 24 marzo. L’ex boss della mala del Brenta, in carcere a Pescara per maltrattamenti alla moglie, arriverà a Padova scortato dalla polizia penitenziaria: sarà ascoltato al quarto piano del palazzo di giustizia dal pm Roberto D’Angelo, il magistrato che ha riaperto l’inchiesta sull’omicidio di Toffanin, ucciso a 23 anni senza un perché la sera del 3 maggio 1992 nel quartiere padovano Guizza, in via Tassoni davanti al civico 4.
Bonaldo era da tempo bersaglio dell’odio di Sergio Favaretto, il 69enne di Cadoneghe che avrebbe materialmente sparato con una pistola e un fucile, scortato alla Guizza da Andrea Batacchi, 60 anni di Padova, alla guida dell’auto impiegata dal killer (entrambi risultano indagati per omicidio volontario e premeditato). Eppure la vittima mancata continua a negare quell’errore («Le persone che, secondo gli investigatori, possono aver fatto quello che è successo (il riferimento a Favaretto e a Batacchi), mi conoscevano bene, non avrebbero sbagliato»).
Ma pm e polizia non gli credono. E non credono neppure a quello che Maniero avrebbe già fatto sapere per vie traverse: ammette di conoscere i protagonisti (non avrebbe potuto negarlo visto che Batacchi, con altri complici, aveva eseguito per lui il furto del mento del Santo il 10 ottobre del 1991) ma di quell’omicidio, insiste, nulla sa.
Nell’attesa, l’indagine va avanti. Compresi gli interrogatori di persone legate tanto a Bonaldo quanto ai due indagati come “suggerito” da una lettera anonima recapitata in questura e indirizzata al “dottor Roberto D’Angelo della procura di Padova”. Una lettera che indicherebbe con precisione anagrafica i nomi e i cognomi di chi sa tutto.
Sono già stati sentiti anche alcuni ex soci d’affari di Marino Bonaldo, in particolare un padovano che si è trasferito in Romania. L’uomo ha confermato che l’ex socio impiegava una Mercedes di colore bianco, identica all’auto che la sera della tragedia Matteo Toffanin aveva avuto in prestito dallo zio (e per un’incredibile coincidenza, le due vetture avevano in comune tre numeri di targa). E ha spiegato che Bonaldo era molto legato ad Achille Pozzi, altro esponente della mala tuttora detenuto nel carcere di Padova, pure lui interrogato lo scorso febbraio.
Sempre l’ex socio avrebbe confermato che le due ex mogli di Bonaldo e Pozzi erano amiche. E che il legame era rimasto nonostante Bonaldo e famiglia si fossero trasferiti a Verona proprio a metà del 1992: da una parte uno dei figli, gravemente malato, era in cura in un centro medico veronese, dall’altra si sarebbe trattato di una “fuga” per sparire dalla circolazione dopo lo scampato pericolo. Una versione non confermata dall’ex moglie di Bonaldo interrogata come l’ex “signora Pozzi”.
Insomma in questa storia tutti dicono (o fingono) di non sapere o non ricordare, mentre una giovane vittima innocente è stata assassinata. A raccontare il motivo dell’avversione di Favaretto per Bonaldo, è stato lo stesso Pozzi: nell’agosto 1976 il primo, sospettando una tresca tra sua moglie e il secondo, aveva sparato all’addome a quest’ultimo che lo aveva denunciato. Favaretto era stato condannato a 7 anni di carcere. E da quel giorno nel mondo della mala Bonaldo non era più riuscito a scrollarsi di dosso il marchio dell’infame.
Il superpentito: errore imperdonabile, tutti sapevano
Nella mala del Brenta tutti sapevano che Toffanin era stato ucciso per uno scambio di persona e che il vero bersaglio dell’agguato era Marino Bonaldo. La conferma è arrivata da Stefano Galletto, il superpentito veneziano, oggi 62enne, che ha dato il colpo di grazia alla ricostituzione della banda criminale. E che ha detto ben di più.
«Era il 1997, cinque anni dopo un mio arresto avvenuto nel marzo 1992, incontrai in carcere Favaretto e gli chiesi come mai non fossero ancora andati a prenderlo (con riferimento all’omicidio del ragazzo padovano)...». Quest’ultimo con un ghigno, quasi per rimproverarlo di aver fatto una domanda inopportuna e contrariamente al suo solito poco loquace, avrebbe reagito: «Se vengono, c’è chi può dire dov’ero quella sera». Tradotto: ho un alibi.
È uno dei passaggi della testimonianza di Galletto, durata circa cinque ore, davanti al pm D’Angelo.
Favaretto, 69enne originario di Cadoneghe anche se vive nella città del Santo, e Andrea Batacchi, 60 anni di Padova, erano componenti del gruppo di fuoco, specializzato nelle rapine e negli assalti ai blindati, di cui faceva parte pure Galletto, 14 anni di carriera criminale ai massimi livelli nella mala, fino al colpo grosso del 10 ottobre ’91 quando, con il compagno d’armi Batacchi, trafugò la reliquia del Santo dalla Basilica di Sant’Antonio (su ordine di Maniero) prima del “salto” dalla parte della legalità avvenuto nel 2003, quando decise di collaborare prendendo le distanze dal passato. E ricostruendosi una vita (e una famiglia) lontano dal Veneto.
Matteo Toffanin è stato ucciso per sbaglio. Galletto ha ribadito che, di “quell’errore”, si parlava poco nella mala. Semplice il motivo: per un criminale, è una macchia imperdonabile sbagliare obiettivo. Un segno di incapacità. Il pentito, che ormai ha pagato il suo debito con la giustizia, ha precisato che, nel marzo 1992, era stato arrestato: fino ad allora risultava l’immancabile “spalla” di Favaretto, cui era legato da amicizia e complicità. Quest’ultimo, infatti, non agiva mai da solo, sempre con Galletto. Quando il complice finisce in carcere, il collega inizia il sodalizio con Batacchi: un elemento che rafforzerebbe il sospetto della procura sull’uccisione di Matteo Toffanin da parte dei due indagati.
Resta da chiedersi: perché quell’errore? Favaretto – ha chiarito Galletto, soprannominato il “geometra” per la sua meticolosità – era ossessionato da Marino Bonaldo. Per colpa di quest’ultimo – una versione confermata da un altro ex della mala, Achille Pozzi, 65enne di Mirano attualmente detenuto, già interrogato dal pm – Favaretto era stato ben 4 anni dietro le sbarre salvo poi beneficiare del condono: il 30 agosto 1976, con una scusa, aveva portato in aperta campagna Bonaldo. E gli aveva sparato all’addome. Bonaldo s’era salvato e aveva spifferato il nome dell’aggressore alle forze dell’ordine.
Il motivo dell’agguato?
Favaretto, come detto sopra, sarebbe stato disturbato dalla voce che l’amico lo aveva tradito con la moglie. Il 14 novembre 1980 arriva la condanna della Corte d’assise di Padova a 7 anni, poi confermata in appello nel dicembre 1982. Dopo la scarcerazione – ha insistito Galletto – Bonaldo era diventato un “tarlo” per Favaretto, descritto come un cinico, propenso alla violenza e senza scrupoli. Non basta. Galletto ha raccontato che lui e Favaretto avevano un disturbo della vista e portavano gli occhiali. Tuttavia per mettere a segno gli assalti ai portavalori (la loro specialità), Galletto metteva le lenti a contatto, Favaretto si limitava a togliersi gli occhiali nonostante il difetto della vista. E in questo caso – sostengono gli investigatori – il rischio di un errore si moltiplica.
C’è dell’altro. Galletto è apparso ancora una volta credibile: memoria di ferro, ricorda particolari già riferiti vent’anni fa. Al contrario Bonaldo (il presunto bersaglio) non sarebbe ritenuto affidabile: ha sempre negato di essere stato lui nel mirino degli assassini. E ha taciuto al magistrato di essere stato indagato con Pozzi e altri due della mala del Brenta (in seguito alle dichiarazioni di Galletto) per la rapina messa a segno il 6 giugno 1996 ai danni dell’orafo Claudio Pegoraro, ucciso con un colpo alla schiena a San Zeno di Cassola. Un altro omicidio senza colpevoli: l’inchiesta del pm vicentino Giovanni Parolin è stata archiviata nel 2018.
Cristina e Marina, insieme per superare il dolore
Marina Manna, commercialista, è la titolare dello studio professionale in cui lavora Cristina Marcadella, la sopravvissuta all'agguato teso a Matteo Toffanin. "E' la mia grande amica, eravamo usciti tutti insieme il giorno prima che uccidessero Matteo. Le nostre vite si sono intrecciate e non ci siamo mai più lasciate". Ecco la videointervista di Enrico Ferro.
Storie di vittime innocenti di mafia
La storia di Matteo è raccontata anche in un podcast. Si intitola Storie di vittime innocenti di mafia ed è stato realizzato da Avviso Pubblico grazie ai fondi della Legge regionale numero 48 del 2012 e finanziato dalla Regione del Veneto. In esso si raccontano le storie di quattro persone venete uccise dalla mafia. Quattro vittime innocenti di cui abbiamo il dovere di fare memoria.
Le altre tre sono:
• Cristina Pavesi, una ragazza innocente, uccisa dalla Mafia del Brenta e dal suo boss Felice Maniero
• Marco Padovani, un giovane imprenditore rapito dalla ‘ndrangheta e tenuto prigioniero per più di 160 giorni
• Silvano Franzolin, un carabiniere partito dal polesine ed ucciso per mano mafiosa nella strage della circonvallazione a Palermo
Dove è possibile ascoltare il podcast
È possibile ascoltare il podcast anche su qualsiasi piattaforma di streaming audio, cercando
“Storie di vittime innocenti di mafia”.
Di seguito l’elenco delle principali piattaforme di streaming audio in cui è possibile ascoltarlo:
Spotify: https://open.spotify.com/show/2Y8HQi6JvAxglXfQoF9wX9
Apple podcast: https://podcasts.apple.com/us/podcast/storie-di-vittime-innocenti-dimafia/id1651409373
Amazon music: https://music.amazon.it/podcasts/d7382095-552d-4410-a039-c1eed6cebd7c/storie-di-vittime-innocenti-di-mafia
Ascolta l’episodio su Matteo Toffanin
“Storie di vittime innocenti di mafia” è stato realizzato con la voce narrante di Agnese Piola, la produzione, le interviste ed i testi del giornalista Antonio Massariolo, l’audio design di Tommaso Rocchi. Ecco la puntata su Matteo.
Il fumetto di Becco Giallo: quanto può crescere una quercia?
“In Veneto non c’è la mafia, son solo quattro mele marce, e non uccidono.”
Questa è la frase che si sente spesso dire quando si prova a parlare di mafie nel nord-est. La vicenda di Matteo Toffanin però ci riporta alla triste realtà, mostrando la verità: in Veneto la mafia c’è e uccide, uccide vittime innocenti e distrugge famiglie.
La storia di Matteo inizia il 3 maggio 1992. È il giorno in cui la sua vita viene stroncata ma è comunque un inizio perché ogni volta che viene uccisa una vittima innocente la sua storia non termina, semplicemente nasce una nuova vita fatta di solidarietà, di consapevolezza, di memoria e di impegno.
Ecco la videointervista di Paolo Cagnan a Antonio Massarioli.
La storia di Matteo è anche la storia di una comunità che, grazie a Cristina, la sua ragazza di allora scampata all’attentato mafioso, ha deciso di mettersi d’impegno per ricordarlo e ricordare tutte le vittime innocenti delle mafie.
Una pubblicazione di Associazione Filotekne in collaborazione con BeccoGiallo.
Il 21 marzo la Giornata contro le mafie
Ogni anno, il 21 marzo, primo giorno di primavera,l'Associazione Libera celebra la Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. L'iniziativa nasce dal dolore di una mamma che ha perso il figlio nella strage di Capaci e non sente pronunciare mai il suo nome.
Nel 2019, capitale della lotta antimafia è stata Padova, con oltre cinquantamila persone intorno al Prato della Valle. Una giornata indimenticabile.
Libera ha scelto nel 2023 di proporre la manifestazione a Milano in una città del Nord (dopo Padova, nel 2019) e di organizzare nuovamente, superati i limiti imposti dalla pandemia, un corteo nazionale. Ci ritroveremo in Lombardia da ogni parte d’Italia, per catalizzare le energie di quanti vogliano impegnarsi per la costruzione di orizzonti di giustizia sociale, avverso le mafie e la corruzione. L’obiettivo è un coinvolgimento ampio di tutto il territorio nazionale, con collegamenti internazionali con Europa, Africa, America Latina, grazie alla collaborazione con esponenti delle istituzioni e della società civile.
Lo slogan “È possibile”. Lo slogan di questa Giornata vuole portarci a riflettere su ciò che ciascuno di noi può fare per l’affermazione dei diritti e della giustizia sociale.La parola “possibile” deriva da “potere” e indica ciò che si può realizzare, ciò che può accadere. Oggi ci troviamo su un sentiero oscuro, dove talvolta non ci sono neanche le stelle a farci da guida. Sappiamo che “è possibile” superare questa fase se a metterci in gioco siamo tutti, insieme: solo con il noi si può arrivare ad affermare la pace, la giustizia, la verità, i diritti, l’accoglienza e la libertà.
Pubblicato su La Nuova Venezia