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Il Papa incontra i rifugiati arrivati con i corridoi umanitari: mai più tragedie come quella di Cutro

La Comunità di Sant’Egidio: «Dal 2016 sono state salvate 6080 vite umane, giunte in Europa legalmente, arrivate soprattutto in Italia, oltre che in Francia, Belgio e un limitato numero nel principato di Andorra e a San Marino»

CITTÀ DEL VATICANO. «La loro realizzazione è dovuta sia alla creatività generosa della Comunità di Sant’Egidio, della Federazione delle Chiese Evangeliche e della Tavola Valdese, sia alla rete accogliente della Chiesa italiana, in particolare della Caritas, sia all’impegno del Governo italiano e dei Governi che vi hanno ricevuto». Papa Francesco descrive così i corridoi umanitari - grazie ai quali sono arrivati in Europa in legalità 6080 migranti - nel discorso che consegna mentre incontra i rifugiati giunti attraverso questo sistema di accoglienza, insieme alle famiglie e ai rappresentanti di enti e realtà che li accolgono e ne curano l’integrazione. Il Pontefice ieri è tornato anche a parlare di Cutro – a quasi tre settimane dalla tragedia è salito a 87 il numero delle vittime - scandendo che «quel naufragio non doveva avvenire, e bisogna fare tutto il possibile perché non si ripeta»: bisogna mettere fine alle tragedie del mare.

Nell’«Aula Paolo VI» sono in 7mila, tra i migranti giunti in Italia, Andorra, Belgio, Francia e San Marino, e le persone che hanno aperto loro le porte di casa, a cui il Vescovo di Roma esprime gratitudine.

Jorge Mario Bergoglio denucia che il Mediterraneo «è diventato un cimitero»; secondo il Papa «una migrazione sicura, ordinata, regolare e sostenibile è nell'interesse di tutti i Paesi. Se non si aiuta a riconoscere questo, il rischio è che la paura spenga il futuro e giustifichi le barriere su cui si infrangono vite umane». Francesco ribadisce che è «terribile» la situazione dei «lager in Libia».

Dal 2016 sono 6080 gli immigrati arrivati nel continente europeo con i corridoi umanitari: lo comunica Daniela Pompei della Comunità di Sant'Egidio, presentando l'esperienza al Pontefice. «Siamo in tanti oggi – esordisce l’esponente di Sant’Egidio – confusi tra chi è stato accolto e chi ha aperto le porte della sua casa e del suo cuore, in questo abbraccio che sono i corridoi umanitari. Essi sono nati dalla memoria dolorosa delle morti in mare, sono nati dal pianto e dalla preghiera. La preghiera e il dolore ci hanno aiutato a non rassegnarci: a riflettere, a lottare per costruire una via alternativa ai barconi. La preghiera e il dolore ci hanno spinto, costretto quasi, a quella creatività nell’amore di cui lei Santo Padre tante volte ha parlato. Dal 2016 ad oggi sono state salvate 6080 vite umane, giunte in Europa legalmente, arrivate soprattutto in Italia, ma poi in Francia, in Belgio e un limitato numero nel principato di Andorra e a San Marino». È una «piccola luce di fronte al muro dell’impossibilità e dell’idea che non si possa fare niente». Questo è «vero per chi è giunto sano e salvo, ma penso anche ai tanti richiedenti asilo che ci scrivono dai paesi in guerra o dai campi profughi. I corridoi umanitari sono una speranza anche per loro: c’è un’altra via possibile oltre a quella disperata dei viaggi in mare. Sono una via quando si vedono solo muri».

In questa giornata «vediamo il futuro: un popolo misto, di gente diversa ma che costruisce un futuro fraterno e felice. Fratelli tutti! Aprire una via è stato l’inizio ma poi la sfida di ogni giorno è vivere insieme. Quanti bambini sono nati in questi anni! Quanti matrimoni e case arredate, ricongiungimenti, feste di laurea. Quanta vita che rinasce anche nei piccoli comuni spopolati. Anche problemi naturalmente, ma quanta vita! L’accoglienza ha messo in moto un movimento di integrazione e di pace. In tanti qui potrebbero raccontarlo». Parrocchie, associazioni, comuni, congregazioni religiose, famiglie, «tante persone che hanno sentito la responsabilità di accogliere. E chi ieri è stato accolto, oggi è in prima linea per accogliere altri che arrivano. “Insieme” è una parola fondamentale dei corridoi umanitari. L’accoglienza non la si può fare da soli. Per accogliere è necessario essere “insieme”. Ci siamo sentiti più comunità: questo è stato il dono inatteso dell’accoglienza. Accogli una famiglia che scappa dalla guerra e, con chi cerca riparo, scopri una comunità di persone che si aiutano e che, con te, lottano e sperano».

Libano, Etiopia, Libia, Pakistan, Iran, Niger, Grecia e Cipro e «in modo diverso l’Ucraina, sono gli avamposti degli otto corridoi umanitari da dove inizia la via sicura per arrivare in Europa. Sono arrivati cittadini Afgani, siriani, eritrei, congolesi, nigeriani, camerunesi, sudanesi, somali, yemeniti, irakeni, palestinesi, guineani, togolesi e da ultimo gli ucraini, soprattutto donne e bambini. Ora ci conosciamo, ma questa storia di amore e di amicizia è nata prima. È nata quando siamo andati a cercare nell’inferno dei campi profughi persone che non conoscevamo ma che già sentivamo fratelli e sorelle. Il bisogno è grande, tanti, troppi, continuano a morire. Continui a sostenerci Santo Padre, ci benedica, perchè non diventiamo mai sordi al grido che sale da tanti luoghi di dolore. Sentiamo la responsabilità e l’urgenza di fare di più e di fare presto».

Ecco poi una testimonianza, quella di Mattia, dalle Marche: «Sono emozionato di rappresentare, davanti a lei, una comunità di famiglie che non hanno avuto timore ad aprire le loro porte e alla fine si sono ritrovate con tanti nuovi parenti, venuti da lontano, oggi non più stranieri. Per la mia famiglia tutto comincia nel 2018, quando mio suocero Lamberto, capofila di un gruppo di volontari, ci lascia in eredità l’accompagnamento di una famiglia siriana, arrivata con uno dei primi Corridoi Umanitari: papà, mamma e due figli piccoli, fuggiti dalle bombe e dalla distruzione di Homs. “Pensate, i vostri figli, Bianca Maria e Francesco, avranno la possibilità di confrontarsi con bambini di un’altra cultura!”, ci diceva con fierezza Lamberto all’indomani del loro arrivo in Italia. “Avete perso un padre, ma avete trovato due fratelli”, così ci hanno detto Anton e Nadine al funerale di Lamberto, scomparso appena quaranta giorni dopo il loro arrivo. Due fratelli in più, quindi, la scoperta della Comunità di Sant’Egidio, e una piccola rivoluzione che cominciava nelle Marche, nella piccola Castelfidardo, con altre famiglie e compagni di viaggio straordinari: Dariana, Paolo, Alessandro e Barbara, solo per citare alcuni tra i presenti. Con loro ci siamo organizzati per provvedere a tutto: chi alla scuola per Mousa e Yana, chi alle visite mediche, chi ai documenti, alla ricerca della casa, al lavoro, che da noi non manca».

Soprattutto all’inizio, anche alcune «incomprensioni, come capita in tutte le famiglie, dovute non solo alle differenze culturali, ma soprattutto a ferite interiori profonde, alla difficoltà di riacquistare fiducia negli altri: “In guerra non sai più di chi ti puoi fidare”, ci hanno ripetuto più volte. Solo ora, dopo che una guerra, quella in Ucraina, mina la pace in Europa, sono riuscito a carpire il vero significato di quelle parole. Sì, perché creare ponti significa anche mettersi in discussione».

Nulla avviene «per caso. Nel pieno del lockdown, la Provvidenza ha voluto che la nostra esperienza si incontrasse con quella di nuovi amici delle Marche, che a Macerata e Civitanova, hanno voluto ripetere la nostra esperienza. Così, come un contagio positivo, da quel primo corridoio ne sono nati altri due. Ecco perché oggi la nostra non è più una semplice esperienza. Siamo convinti che sia molto di più: i corridoi umanitari sono una via sicura per salvare vite umane e sono un grande dono per questa nostra Europa, spesso invecchiata e rassegnata. Il nostro augurio è di vedere esteso questo modello a tutto il continente. Siamo qui a testimoniare proprio questo e credo che le mie parole valgano anche per tutti coloro, tanti, che hanno ospitato in Italia e in Europa: dall’accoglienza e dall’integrazione può nascere una società culturalmente ed umanamente arricchita. Un mondo cambiato. È davvero, Padre Santo, vivere “Fratelli tutti”. Per questo la ringrazio, per aver dato voce oggi a chi accoglie e a chi viene accolto, e per le sue parole che risvegliano ogni giorno le nostre coscienze».

Papa Francesco ascolta le drammatiche vicende di chi ha dovuto subire ogni sorta di violenza e dolore nella ricerca di una vita più dignitosa, di un futuro migliore. Come Meskerem, arrivata dall'Eritrea: «Sono uscita da ragazza dal mio paese, avevo 15 anni con mia sorella Masa che ne aveva 23. Io non sono mai andata a scuola. Mia sorella doveva andare via perché era stata chiamata a fare il servizio militare. Che in Eritrea non si sa quando finisce. Mia madre con il cuore spezzato ci ha mandato via per salvare la nostra vita, ci ha dato tutti i soldi di casa e il suo oro. Abbiamo camminato tanto di notte fino al Sudan. Dal qui mia sorella ha organizzato il viaggio verso la Libia. Abbiamo attraversato il Sahara con un pick-up, eravamo tanti, uomini e donne». Se qualcuno cadeva giù, «il pick-up non si fermava. Alcuni venivano rapiti già in questo percorso».

Prima di entrare in Libia «ci hanno messo in un capannone pieno di gente, c’era un odore insopportabile. Eravamo prigioniere. Mia sorella ha iniziato a contrattare per uscire, loro hanno visto che aveva l’oro e lo hanno preso. Alla fine siamo riuscite a uscire e abbiamo iniziato a lavorare un po'. In quel periodo riuscivamo a parlare con nostra madre ed io ero felice. Un giorno mia sorella non è più tornata a casa e da allora non so più niente di lei. L’ho cercata ovunque, senza successo. Dalla signora vivevo come una schiava e un giorno sono scappata e mi sono unita ad altri eritrei. Mi hanno portato in un capannone pieno di gente “Ghem ghem bari” che significa “Prima del mare”».

Coloro che «pagavano partivano a gruppi. Stando li ho conosciuto Suleiman, il mio futuro marito. Senza pagare non si parte. I capi del capannone mi hanno portato in una casa per guadagnare i soldi del viaggio. Sono stata lì 6 mesi e ho subito violenze di tutti i tipi e “mi hanno mancato di rispetto”. Non mi reggevo più in piedi, mi hanno riportata nel capannone per partire. Lì ho incontrato di nuovo Suleiman lui ha avuto pietà di me e ha iniziato a proteggermi. Una volta ci siamo imbarcati siamo stati undici ore nel mare, è arrivata una barca della guardia costiera libica e ci ha riportato indietro. Siamo stati di nuovo imprigionati a Bem Kasher a Tripoli». Sono stati lì «undici mesi. Aspettavamo che Unhcr venisse a registrarci. Io e Suleiman ci siamo sposati nel campo e nel campo è nata mia figlia». Un giorno le arriva «la telefonata dall’Italia, e mi dicevano che ero stata inserita nei corridoi umanitari. Alla prima telefonata non ci ho creduto. Poi alla seconda hanno iniziato a chiedermi i documenti, il nome di mio marito e di mia figlia. In quel momento ho sentito come un angelo che mi prendeva dalla terra e mi portava in volo oltre il mare fuori dall’inferno. Non riuscivo più a dormire, pensavo davvero partiremo? Mi sembrava impossibile. Poi ci ha chiamato anche l’Unhcr e allora mi sembrava più vero. Ero molto felice, ma anche sull’aereo avevo paura, pensavo che mi avrebbero fatto scendere prima di partire». Il suo «inferno in Libia è terminato dopo dieci anni». Adesso le piacerebbe tanto «che anche quelli rimasti indietro provassero la mia gioia. Ora sono incinta aspetto il mio secondo figlio, siamo molto felici perché mia figlia vive qui, va a scuola, lei non vivrà quello che io ho vissuto. I miei ringraziamenti non saranno mai sufficienti, il mio cuore è pieno di gioia».

Pubblicato su La Nuova Venezia