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I familiari delle vittime di mafia a Milano: “Vogliamo verità e giustizia per madri, padri e figli”

Erano cinquecento e provenienti da tutta Italia e dal mondo, con volti e nomi stampati su cartelli e magliette: «Trovare e condannare gli assassini è il minimo che possa fare un paese civile»

MILANO. Le magliette con i volti di figli, madri e padri ammazzati dalla mafia. Alcuni familiari li hanno stampati anche bandiere, cartelloni e striscioni. Altri invece urlano i loro nomi con rabbia, nascondendo le lacrime dietro gli occhiali da sole. Si sono riuniti a Milano per la Giornata del ricordo delle vittime innocenti di mafia in occasione della manifestazione nazionale promossa da Libera e Avviso Pubblico. Erano cinquecento, provenienti da ogni parte d’Italia e del mondo. Chiedevano una sola cosa, a gran voce tra corso Venezia e piazza Duomo: giustizia per i morti.

La chiede per esempio Simona Falcone, sorella di Domenico, ucciso a Bollate il 24 marzo 1990 all’età di 22 anni. È una vittima della faida mafiosa di Niscemi: Liborio Trainito, uno degli esponenti, doveva ammazzare Mario Di Corrado, altro protagonista. Domenico è stato freddato a colpi di pistola solo perché si trova sulla via di fuga del killer. Il suo nome, dopo ben 33 anni, è stato finalmente inserito nell’elenco delle vittime innocenti di mafia, letto oggi in piazza Duomo. «Noi siamo tra i pochi ad aver ottenuto giustizia» ha commentato Simona, con la figlia e il nome di «Mimmo» scritto su un cartello appeso al collo. «Ma l’assassino, condannato all’ergastolo, si è subito pentito ed è stato ampiamente tutelato, facendosi solo pochi mesi di carcere». Oltre il danno, la beffa: non ha mai ricevuto un risarcimento perché “i termini per poter fare richiesta erano ormai scaduti». Ed è assurdo, ha aggiunto, «che nessuno ci abbia mai aiutato».

Chi invece l’ha avuta è Teresa Diana, figlia di Mario, imprenditore del settore trasporti ucciso a Casapesenna (provincia di Caserta) nel giugno del 1985. La mano che gli ha tolto la vita apparteneva al clan dei Casalesi. «Cercavano di prendersi le sue aziende» spiega stringendo tra le braccia una sua foto in camicia bianca, cravatta rossa e viso sorridente. «Lui si era opposto finché non hanno deciso di farlo fuori». Un atto di coraggio che l’intera famiglia ha ignorato per diverso tempo: «Non ci ha mai detto nulla, voleva proteggerci». Vent’anni dopo, gli esecutori materiali sono stati arrestati e condannati. «Abbiamo vissuto nel dolore per tutto questo tempo. Per fortuna chi ha ucciso ha rotto il muro dell’omertà e collaborato con la giustizia. Altrimenti sarebbe stata un’altra morte senza risposta».

Nel corteo sfila la memoria di padri e figli morti a causa della criminalità organizzata, ma anche di donne che alle mafie hanno cercato di rispondere con la ragione e la forza dell’amore. Come la fiorentina Rossella Casini, morta a 25 anni per aver cercato di strappare il proprio compagno dalle logiche di una famiglia ‘ndranghetista. A ricordarla col volto della giovane su una bandiera è Aurora Marzo, referente di Libera Palermo: «È stata uccisa nel 1981, ma sulla vicenda è calato subito un silenzio assordante. Soltanto tredici anni dopo, e grazie a un latitante palermitano pentito, abbiamo ricostruito la sua vicenda». Che è agghiacciante: considerata in ambiente calabrese estranea alle dinamiche culturali mafiose, fu prima rapita e stuprata, poi fatta a pezzi e gettata in mare nei pressi della tonnara di Palmi.

Storie che rivivono nelle gambe, nella testa e nella voce di quei cinquecento familiari. Molti sono entrati nel corteo con zaini e valigie al seguito, senza nemmeno posarli in alberghi e hotel. Subito in strada, a pretendere per una verità che manca ancora «per l’80 per cento dei parenti di vittime di mafia e terrorismo», come ha tuonato don Luigi Ciotti dal palco di piazza Duomo. Vite spezzate, a cui i parenti cercano ancora di trovare una risposta. Alcuni da quasi un secolo. Come Ornella Salerno, nipote di Giovanni Megna, una delle undici persone morte nella strage di Portella della Ginestra il primo maggio 1947. La prima riconosciuta come politico-mafiosa dell’Italia unita, senza che i veri mandanti siano mai stati trovati. «Tempo fa un mafioso dichiarò che non siamo noi a cambiare, ma lo Stato» ha detto reggendo un cartellone con volti e nomi delle vittime. «Ma trovare e condannare assassini del genere è il minimo che un paese civile dovrebbe fare».

Pubblicato su La Nuova Venezia